Camminando lungo l’argine del torrente Dolo ci siamo imbattuti in questa pianta molto diffusa sul nostro Appennino, ma che alla quale non diamo nessuna importanza. Si tratta della Ferula Comunis, volgarmente finocchiaccio ciò, è una Apiacea diffusa nel bacino del Mediterraneo fino alle nostre latitudini. La sua etimologia latina indica una pianta a fusto diritto. E’ una pianta perenne a riposo estivo, quasi invisibile in inverno, mentre a primavera il suo fusto si allunga anche fino a tre metri e si secca sulla pianta stessa. Le foglie basali, simili a quelle del finocchio, sono lunghe fino a 60 centimetri. I fiori sono delle ombrelle: le centrali possono avere anche 25 – 40 raggi, le laterali sono più piccole.I petali sono gialli e la fioritura avviene in maggio e giugno; i frutti, lunghi 12 – 18 centimetri, sono diachei (come 2 semi di girasole uniti). I fusti secchi sono usati in vari modi come se fossero canne. In Sicilia ne fanno sgabelli a forma di cubo (furrizzi o furrizzuoli) o per appendere le foglie di tabacco. In Sardegna si usano per fabbricare gratelle per la stagionatura di formaggi e insaccati oppure sgabelli (seamus). In Puglia se ne fanno gabbie, sedie, panieri e sgabelli. L’,uso della Ferula per farne mobiletti e per gli usi già descritti, è testimoniato fin dall’antica Roma. Il più recente è stato quello di usarla come bacchetta per “punire” gli alunni più insubordinati. Sulle radici di questa pianta nasce un fungo (Pleurotus eryngii var. Ferulae) molto apprezzato nella cucina del nostro meridione e delle due Isole. È una pianta tossica per le sue proprietà anticoagulanti e può essere pericolosa per gli animali al pascolo, che normalmente la scartano, tanto che può divenire infestante, ma può essere un problema se viene sfalciata e somministrata in mezzo al fieno.
Grazie a Mauro Fornara per la consulenza botanica.